Affidamento per le coppie gay: si aprono nuove strade?

di francesca


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È di pochi giorni fa una sentenza della Suprema Corte di Cassazione che ha suscitato un fiume di polemiche e di strumentalizzazioni. Vediamo il caso concreto. La prima sezione Civile della Cassazione doveva decidere in merito ad un ricorso relativo all’affidamento di un figlio in una vicenda di separazione coniugale. Il padre del bambino sosteneva di aver diritto all’affidamento del figlio, che gli era stato già rifiutato dal Tribunale e dalla Corte d’Appello. La prima sezione della Cassazione, presieduta da un Giudice che io reputo tra i più illuminati, Maria Gabriella Luccioli, ha confermato semplicemente la collocazione del bambino, già disposta da altri giudici, presso la madre, nonostante la stessa avesse intrapreso una convivenza omosessuale, giudicata sostanzialmente compatibile con l’affidamento del figlio.

La Corte ha ritenuto che tale circostanza non potesse essere di nocumento per il bambino, come invece sosteneva il padre (il quale a sostrato della sua tesi adduceva motivi di carattere religioso). Immediate le reazioni e, a mio parere, le strumentalizzazioni. È stata definita addirittura una “sentenza epocale”, la quale secondo alcuni avrebbe dato perfino il via alle adozioni da parte delle coppie omosessuali, mentre in realtà le norme vengono formulate da un Parlamento come sintesi dialettica di una discussione politica, e non da un Tribunale (per quanto Supremo!).

Intanto è necessario ricordare che qualsiasi sentenza, nel nostro Paese, per quanto possa essere espressione di nuove interpretazioni, vale solo per il caso specifico; anche se è innegabile che una pronuncia di Cassazione possa ben essere in grado di influenzare, o almeno orientare, il legislatore. E nel caso specifico, la Corte doveva decidere in merito all’affidamento di un bambino, non all’adozione: doveva decidere se tra il padre e la madre ci fosse un genitore che desse miglior garanzia di istruire, educare e mantenere il figlio secondo le sue inclinazioni, di seguire cioè il figlio nella sua crescita, nelle condizioni che gli garantissero il miglior equilibrio psicologico e fisico.
Ebbene, la Corte ha ritenuto che la madre avesse queste caratteristiche, laddove il padre (tacciato da alcuni di essere stato peraltro soggetto di atteggiamenti violenti) aveva interrotto la convivenza con il figlio quando lo stesso era in tenera età. Il dato indubitabile è che il bambino è stato affidato a sua madre, non ad una coppia omosessuale: la circostanza che la madre avesse intrapreso una convivenza omosessuale è stata oggetto del giudizio solo perché il padre l’aveva addotta quale deterrente; dunque la Corte ha dovuto esprimersi, ma si è espressa giudicando tale circostanza come non nociva per quel caso specifico.

Non possiamo parlare dunque di riconoscimento per le coppie omosessuali di allevare figli o di adottarli. Del resto, la nostra Costituzione, le nostre leggi e tutte le convenzioni internazionali che attengono alla tutela del minore attribuiscono al minore stesso il diritto di crescere nella sua famiglia nel modo più consono al suo sviluppo equilibrato. Indipendentemente da questa specifica sentenza, sulla questione più generale, relativa cioè al diritto o meno delle coppie omosessuali di allevare o adottare i figli, ritengo che sia spesso assolutamente sbagliata l’ottica con cui si valuta il problema.

Non esiste un diritto alla genitorialità: per nessuno, eterosessuale o omosessuale che sia! Esiste il diritto, universalmente sancito, dei minori, o meglio dei bambini (per dirla con un termine che mi piace molto di più), a crescere al meglio. E questo diritto va protetto con forza. Una democrazia può essere definita tale quando è capace di difendere le posizioni deboli, quando sa far valere il diritto delle minoranze che non hanno ancora una voce, quando comprende fino in fondo cosa significhi investire sul proprio stesso futuro.

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