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Imane Khelif sotto attacco: manipolazioni, strumentalizzazioni e fake news
In un panorama mediatico in cui spesso i giornalisti sembrano confondersi con influencer o politici in cerca di consenso a colpi di like, è necessario fare chiarezza su alcune questioni riguardanti l’affaire Imane Khelif, l’atleta algerina di box che, ai Giochi Olimpici di Parigi, sta facendo molto discutere di sè (suo malgrado).
Imane Khelif, anzitutto, non è un uomo, ma una donna nata il 2 maggio 1999 a Tiaret, in Algeria. Ha iniziato a praticare boxe fin da bambina e ha sempre gareggiato in competizioni femminili. Pertanto, Imane non è una trans (né transgender né transessuale), ma soffre di iperandrogenismo, una condizione medica caratterizzata da un eccesso di ormoni androgeni nel corpo femminile. Nulla di autoindotto per apparire ‘maschio’.
Imane Khelif è intersex (intersessuale), cioè possiede un’anatomia sessuale che non si adatta alle tipiche nozioni binarie di femmina/maschio. Esistono almeno 16 variazioni naturali di cromosomi sessuali, rendendo questa una condizione naturale.
L’iperandrogenismo ha causato la sua squalifica dai Mondiali di Boxing del 2023. Da quella data, Imane è stata sottoposta a cure e la situazione è tornata normale al punto che il CIO (Comitato Olimpico Internazionale) ha consentito la sua partecipazione a questi Giochi Olimpici.
È importante sottolineare che Umar Kremlev, presidente dell’IBA (International Boxing Association), aveva dichiarato che Imane Khelif non aveva superato “una serie di test del DNA” che avrebbero dimostrato la presenza di “cromosomi XY“. Questa affermazione è stata smentita e l’IBA non è più affiliata al CIO a causa di scandali amministrativi e di corruzione.
Come spiegato, poi, da Giuseppe Novelli, genetista dell’Università di Roma Tor Vergata, “non bastano solo i cromosomi a stabilire come si diventa femmine o maschi. Sono diversi gli attori attivi in questo processo, come le combinazioni di geni e ormoni”. Qui le sue dichiarazioni integrali.
Il vero focus della questione, invece, non sta nel fatto che Angela Carini abbia affrontato un uomo sul ring (falso), ma nella necessità di stabilire linee guida universali per l’attività sportiva di chi ha una DSD (disordini dello sviluppo sessuale), soprattutto nelle competizioni.
In Algeria, poi, la comunità LGBT+ non ha vita facile. Di conseguenza, è improbabile che si permetta a un uomo di fingersi donna e gareggiare per il proprio Paese in uno Stato in cui l’omosessualità è un reato.
Inoltre, il ‘cursus honorum’ dell’atleta è chiaro: non è invincibile. Cinque donne l’hanno già sconfitta, tra cui l’irlandese Kellie Anne Harrington alle Olimpiadi di Tokyo, nei quarti di finale (la stessa pugile ha poi conquistato la medaglia d’oro).
Alla luce di questi fatti, è inquietante vedere come certa politica strumentalizzi la vicenda per il proprio tornaconto consensuale e ideologico (a cominciare dal presidente del Senato Ignazio La Russa e dal vicepremier Matteo Salvini che hanno insistito sull’errore che l’algerina sia una transgender), e come alcuni colleghi, più innamorati delle telecamere che della verità, cavalchino l’ondata di fake news, tradendo la deontologia che impone di ricercare (e rispettare) la verità sostanziale dei fatti.
Infine, è curioso che si cerchi di trasformare questa vicenda in una ‘lotta’ per la tutela delle diritti delle donne (italiane), attaccandone un’altra (africana).