Battaglie per i diritti, Maria Antonietta Farina Coscioni: “Cosa mi ha insegnato Luca”

di Veronica Femminino


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E’ una donna che non teme di esporsi, di dire quello che pensa. Con grande energia ha raccolto l’eredità morale del marito e ne ha fatto tesoro per continuare a lottare.

Crede in una Italia più libera, dove ognuno abbia uguali diritti, nell’ascolto, nella comprensione delle ragioni di tutti, nel dialogo e nel confronto, soprattutto con i più fragili.

E’ Maria Antonietta Farina Coscioni, presidente dell’Istituto Luca Coscioni, autrice e conduttrice de “La Nuda Verità” su Radio Radicale, membro di segreteria del Partito Radicale.

Le abbiamo chiesto di raccontarsi a DonnaClick, del suo passato, del suo presente ma soprattutto della sua visione di futuro. Ecco come ha risposto alle nostre domande.

Sin da giovanissima lei si è impegnata per la difesa dei diritti umani e delle libertà civili. Come nasce questa sua scelta di vita?

Amavo insegnare. Amavo le mie studentesse e i miei studenti. Amavo il rapporto che riuscivo a creare e instaurare con loro. Uno scambio reciproco. Impegno e fiducia. Paure e speranze. Fragilità e forza. Successi e delusioni. Avrei potuto diventare un’insegnante a tutti gli effetti. Ma nella mia vita è piombata la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), malattia degenerativa del sistema nervoso che paralizza i muscoli, compresi quelli respiratori e porta alla morte per soffocamento. Malattia che ha colpito nel ‘95 Luca con cui ero fidanzata. Abbiamo iniziato a confrontarci con il suo male.

Una scelta personale, quindi, se così si può dire, legata alla condizione della persona che poi è diventata mio marito, Luca Coscioni. Con lui e al suo fianco, abbiamo reso “politica” la malattia, ne abbiamo fatto uno strumento di lotta per il riconoscimento dei diritti dei malati e dei disabili, battaglia per la libertà di ricerca scientifica contro ogni forma di proibizionismo ideologico che impedisce di sperare a milioni di malati nel mondo. Più in generale per la dignità della vita e della sua fine.

Abbiamo “cercato di sottolineare che esiste la ricerca scientifica, la bioetica in laboratorio e la bioetica e la ricerca sulla propria pelle”.

Luca e la malattia sono stati decisivi per il mio impegno, che però probabilmente in altri modi e percorsi, questi ‘interessi’ li avrei ugualmente perseguiti, perché sono ‘miei’”.

Cosa sono per lei i diritti?

“C’è una massima evangelica che vale per credenti o non credenti: non fare al prossimo quello che non vorresti fosse fatto a te. I diritti sono facoltà che si possono esercitare, non obblighi.

Sono qualcosa di inalienabile che appartiene solo alla nostra coscienza. Naturalmente avendo cura che non si procuri danno fisico o psichico al nostro prossimo. E per me il “fare” in politica – come i luoghi per le persone – conta solo se al centro ci sono gli esseri umani. Solo questo è importante. Non è come in un videogame, dove a ogni quadro c’è un pericolo, e un premio se lo superi.

Arrivare alla fine è roba per giocatori forti, motivati e appassionati”.

L’Italia, a differenza di altre nazioni, è un Paese nel quale esistono ancora leggi proibizioniste. Perché a suo avviso?

“Forse perché siamo un paese profondamente intriso di malinteso cattolicesimo. Gaetano Salvemini diceva che in questo paese si considera reato quello che per alcuni è peccato, salvo considerare peccato (e dunque con possibilità di assoluzione), il reato. Premetto: ho grande rispetto per i credenti, e rifuggo da ogni tipo di generalizzazione. Però credo che si paghino ancora delle incrostazioni di cui è difficile liberarsi. Incrostazioni che appartengono anche alla sinistra. Non per un caso quando c’era ancora il Partito Comunista si parlava di “altra chiesa”; il PCI non c’è più, certi residui sopravvivono”.

Lei ha condotto innumerevoli battaglie per i diritti, anche con forme di protesta quali lo sciopero della fame…

“Quelle lotte e quelle battaglie sono ancora attuali e occorre ancora battersi per l’affermazione di quei diritti di cui ho fatto cenno prima: la libertà di ricerca, ma anche la lotta contro ogni forma di discriminazione e di violenza, a partire dai più fragili e indifesi. Basta ascoltare un notiziario TV o leggere una cronaca di giornale per rendersi conto di quanto sia ancora lunga la strada da percorrere. La salute mentale in primis è argomento serio e le approssimazioni sono sempre da evitare. Bisogna contenere, contrastare, scongiurare pregiudizi che attribuiscono al sofferente psichico una maggior prevalenza di azioni violente rispetto alla popolazione generale.

Perché il disagio mentale, in generale la sofferenza psichica sono lì, dietro l’angolo.

Con questa convinzione, è iniziato il mio viaggio all’interno delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS). Sono le strutture di cura che hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari, nate per accogliere, per curare gli autori di reato giudicati infermi o seminfermi di mente. Da nord a sud, isole comprese. Un viaggio lungo e niente affatto semplice. Dentro la malattia mentale, il disagio psichico, la comunità dei folli rei, le legislazioni “speciali” che ancora resistono e il percorso della tutela del diritto alla salute mentale non affatto garantito”.

Nella sua vita c’è anche l’esperienza politica in qualità di deputata. Si è occupata di molte tematiche, tra le quali, per l’appunto, la salute mentale di chi è detenuto. Che ricordo ha di quegli anni?

“Per tanti versi sono stati anni impegnativi, faticosi, esaltanti. L’ultimo viaggio all’interno degli Ospedali psichiatri giudiziari, prima della chiusura, è stato toccante. A volte riaffiorano ricordi dei reclusi in quei luoghi che per fortuna sono stati aboliti. Piccoli gesti, sguardi, particolari che a volte colpiscono e “narrano” più o meglio di tanti discorsi. Ho avuto modo di fare esperienze importanti, conoscere persone impegnate quotidianamente che svolgono un lavoro prezioso anche se poco conosciuto. Qualche delusione per non essere riuscita a fare tutto quello che ritenevo necessario a livello parlamentare, compensata da riconoscimenti di colleghi anche a volte avversari politici, e a distanza di diversi anni. Non nascondo che sarei disposta, se si presentasse l’occasione, di ripetere quel tipo di impegno, forte della passata esperienza. Non sono antiparlamentare, credo fortemente nelle istituzioni, che vanno semmai recuperate alla loro originaria funzione, quella prevista dalla Costituzione”.

Quale è l’insegnamento più importante che le ha lasciato suo marito, Luca Coscioni?

Non arrendersi. Se si è convinti della positività della propria proposta, insistere anche a costo di trovarsi isolati. Si deve opporre il potere della “parola” alle “parole” del potere”.

Libertà di ricerca scientifica e dignità della vita: a 17 anni dalla sua morte è ancora vivo il messaggio di Luca Coscioni. Ma a che punto siamo, nel nostro Paese?

“Credo si sia acquisita una maggiore consapevolezza e rispetto nei confronti di chi è debole, sofferente, solo, indifeso. Il messaggio di Luca credo sia più compreso oggi, rispetto a quando era tra noi. Le lotte che abbiamo insieme condotto in quegli anni sono più “sentite”; quello che conforta, è che sono le nuove generazioni a essere più sensibili ai temi che abbiamo agitato.

Si pongono gli stessi nostri interrogativi; lottano per le stesse risposte, per l’affermazione di diritti considerati inalienabili.

Rimane, tra gli altri, certo il tema del fine vita… nutrito più di cronaca che di dibattito parlamentare, il problema del suicidio assistito ha trovato una prepotente collocazione nei media, capaci di sollevare un turbinio di emozioni, piuttosto che nel luogo deputato a legiferare. Non è un gioco quello di battersi per dei diritti, anche quando tatticismi e opportunismo parlamentari sembrano ostacoli insormontabili. Non si gioca sulla pelle dei più fragili perché un fatto è certo: per morire non si dovrebbe aprire una trattativa con il Parlamento. Così come è amaro sentire il Presidente della Repubblica Mattarella che esorta chi governa a operare perché i nostri scienziati e ricercatori lascino l’Italia perché vogliono lasciarla, e non perché devono lasciarla. C’è ancora tanta ipocrisia. È l’ostacolo maggiore da rimuovere”.

Che ricordo ha di Marco Pannella?

“È stata una delle persone più importanti della mia vita. Con Luca vivo, Marco Pannella è stata la persona che abbiamo incontrato nel nostro percorso di ricerca e di lotta. Ci siamo riconosciuti, perché entrambi, letteralmente incarnavano quello in cui credevano e per cui hanno tenacemente lottato. La politica era impegno; e impegno, personale, fisico, era anche, se non soprattutto ascolto, dialogo, attenzione. La carezza che ti arrivava quando non te lo aspettavi, ma ne sentivi l’urgenza; il sorriso che ti scuoteva dal momento di stanchezza; e anche, a volte, la rude sollecitazione a recuperare in te le risorse che credevi di avere esaurito; e lui, prima con Luca, poi senza, invece sapeva esserci. Di lui ho una quantità di ricordi. Potrei parlarne per ore, e lo confesso: non è facile trovare le parole giuste per dare voce a quello che provo nei suoi confronti. Amore, forse, nel senso più ampio e autentico del termine”.

Nel suo percorso personale ha conosciuto tantissime persone che hanno lottato per vari motivi. Di chi ha un ricordo più vivido, e perché?

“Non vorrei fare torto a nessuno. Marco Pannella, certamente. Umberto Veronesi. Rita Levi Montalcini, Josè Saramago e sua moglie Pilar… Sono i primi nomi che mi vengono in mente, ma potrei farne altri”.

Cosa pensa della attuale condizione femminile in Italia?

“Se si considera che solo il 1 febbraio 1945 è stato emanato il decreto che conferiva il diritto di voto alle italiane maggiorenni (e allora la maggiore età era a 21 anni) si capisce che tanto si è fatto.

E però nel lavoro in tante situazioni le donne sono discriminate e pagate meno degli uomini; e ancora non siamo riuscite a scardinare una certa cultura maschilista che vede la donna come un oggetto da usare e abusare. Basterebbe pensare ai tanti casi gravissimi di violenza fisica e psichica di cui siamo vittime. Violenza, crudeltà e morte che si consumano esattamente in quel “privato” che si vuole intoccabile. Violenze e crudeltà anche quando sono una quantità di vere e proprie violenze invisibili, più odiose, inaccettabili e insultanti per le donne, spesso costrette a subirle in silenzio.

E cosa dire dell’applicazione della legge 194 in tema di aborto a 45 anni dalla sua approvazione? Circa otto ginecologi su dieci sono obiettori di coscienza. Molte donne hanno difficoltà ad accedere alla interruzione volontaria di gravidanza. Tasso di natalità e fecondità tra i più bassi di sempre.

Ci sono 1800 consultori, il 60% in meno di quanto stabilito dalla legge. Questo impedisce a molte donne e adolescenti di rivolgersi a tali strutture. Oppure c’è logica nel malumore da parte del Governo verso la (non ancora attuata) scelta dell’Agenzia Italiana del Farmaco per la gratuità della pillola anticoncezionale? Si dice, a ragione, che è meglio scongiurare aborti e interruzioni di gravidanza. Perché si fa di tutto e di più per boicottare questo provvedimento che si ispira a una ragionevolezza perfino elementare è qualcosa che non si comprende. Tutti coloro che si dichiarano contrari all’aborto dovrebbero essere in prima fila a chiedere informazione sessuale, pillola, anticoncezionali…”.

In tema di comunicazione, anche tramite La Nuda Verità, affrontando diverse tematiche, talvolta ‘scomode’, lei ha più volte posto l’accento sulla necessità di informare senza demonizzare. Come si raggiunge questo obiettivo?

“Un aspetto cerco sempre di coltivare: la preferenza per il linguaggio diretto, meglio del detto-non detto; dell’allusione, dell’indovinello. L’ideale è il linguaggio semplice. Il linguaggio della conoscenza, della libertà e della democrazia. Questo è il trinomio per tentare di spiegare “la natura della libertà”. Da conquistare, difendere, nutrire ogni giorno, ogni ora. Che uso viene fatto, o non viene fatto, ad esempio, della conoscenza? Purtroppo occorre prendere atto che da sempre una delle forze che governano le nostre società è la menzogna: menzogna e disinformazione cosciente, consapevole, abilmente architettata e posta in essere. Il rischio è grave, il pericolo reale: la menzogna infetta e inquina la politica, la società, i mezzi di informazione, la conoscenza scientifica, gli strumenti educativi e formativi, la produzione culturale. Cominciamo dalle scuole. Aiutiamo i genitori che devono imparare a parlare e soprattutto ascoltare i figli…è un lavoro tutto da fare, e che per dare i suoi frutti chiede pazienza e investimenti”.

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