Storica sentenza: entrambe le madri possono riconoscere il figlio con PMA

di Redazione
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Il 22 maggio segna una data storica per i diritti delle famiglie omogenitoriali in Italia. La Corte Costituzionale, con la sentenza numero 68, ha dichiarato incostituzionale il divieto per la madre intenzionale di riconoscere come proprio il figlio nato in Italia tramite procreazione medicalmente assistita (PMA) praticata legalmente all’estero.

Questa pronuncia, che accoglie le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Lucca, rappresenta un passo avanti nella tutela dell’interesse del minore e nella garanzia di un’identità giuridica certa fin dalla nascita.

La sentenza si concentra su un principio cardine: il riconoscimento della genitorialità non può essere limitato al solo legame biologico. La Corte ha ribadito che la responsabilità genitoriale nasce dall’impegno comune assunto dalla coppia nel decidere di ricorrere alla PMA, un impegno che non può essere disatteso, specialmente dalla madre intenzionale, colei che ha prestato il consenso alla pratica fecondativa insieme alla madre biologica.

Il contesto giuridico: il caso di Lucca

La questione è emersa da un caso concreto portato davanti al Tribunale di Lucca, che ha coinvolto una coppia di donne, Glenda e Isabella, unite in matrimonio e madri di due figli, una bambina di tre anni e un bambino di due. La vicenda ha preso una piega significativa quando, a seguito di una circolare del Ministero dell’Interno del marzo 2023, il riconoscimento del bambino nato in aprile è stato negato alla madre intenzionale. Questo episodio ha spinto il Tribunale a sollevare una questione di legittimità costituzionale, chiedendo alla Corte di valutare la compatibilità degli articoli 8 e 9 della legge 40/2004 e dell’articolo 250 del Codice Civile con i principi fondamentali della Costituzione.

La Corte ha risposto con chiarezza, dichiarando che il divieto di riconoscere la madre intenzionale viola tre articoli fondamentali della Costituzione: l’articolo 2, che tutela l’identità personale del minore e il suo diritto a uno stato giuridico stabile; l’articolo 3, che vieta discriminazioni ingiustificate; e l’articolo 30, che garantisce il diritto del minore a ricevere cura, educazione e assistenza da entrambi i genitori.

Le motivazioni della Corte: responsabilità genitoriale e interesse del minore

La sentenza si basa su due pilastri fondamentali. In primo luogo, la Corte ha sottolineato la responsabilità genitoriale derivante dal consenso congiunto alla PMA. Come dichiarato dalla Consulta, “la responsabilità che deriva dall’impegno comune che una coppia si assume nel momento in cui decide di ricorrere alla PMA per generare un figlio, impegno dal quale, una volta assunto, nessuno dei due genitori, e in particolare la cosiddetta madre intenzionale, può sottrarsi”. Questo principio, già riconosciuto per le coppie eterosessuali nella legge 40/2004, è stato esteso alle coppie omosessuali, garantendo parità di trattamento.

In secondo luogo, la Corte ha posto al centro l’interesse del minore, evidenziando che il mancato riconoscimento della madre intenzionale compromette il diritto del bambino a un’identità giuridica certa e a un rapporto equilibrato con entrambe le figure genitoriali. “Il mancato riconoscimento fin dalla nascita dello stato di figlio di entrambi i genitori lede il diritto all’identità personale del minore e pregiudica l’effettività del suo ‘diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori’”, si legge nella sentenza. Questo include anche il diritto a mantenere legami significativi con i familiari di entrambi i rami genitoriali.

Un impatto concreto sulle famiglie arcobaleno

La sentenza ha un impatto diretto sulle cosiddette famiglie arcobaleno, coppie omogenitoriali che, fino ad oggi, dovevano affrontare complesse procedure di adozione per garantire il riconoscimento della madre non biologica. Come sottolineato da Vincenzo Miri, presidente di Rete Lenford e avvocato delle due madri di Lucca, “è una sentenza storica che cambia la vita di tutte le donne che, con le compagne o le mogli, vogliono avere un figlio perché non dovranno più sottoporsi all’umiliante procedura di adozione”.

Glenda e Isabella, le protagoniste del caso, hanno espresso la loro gioia: “Emozionate, commosse, felici. Non pensavamo che saremmo state le prime”. La loro storia evidenzia le difficoltà pratiche affrontate dalle famiglie omogenitoriali, come l’impossibilità per la madre intenzionale di essere riconosciuta in contesti sanitari o scolastici, o le incertezze giuridiche in caso di separazione o decesso della madre biologica.

Un monito al legislatore: l’inerzia normativa

La Corte ha colto l’occasione per ribadire un monito già espresso nel 2021 con la sentenza n. 32, quando aveva invitato il Parlamento a colmare il vuoto normativo in materia di riconoscimento dei figli nelle coppie omogenitoriali. “La sentenza definisce questa situazione ‘intollerabile’”, sottolinea la Corte, evidenziando la disomogeneità di trattamento tra i tribunali italiani, dove alcuni ufficiali di stato civile registrano i figli di due madri e altri no.

La pronuncia non si limita a risolvere il caso specifico, ma stabilisce un principio giuridico immediatamente applicabile.

Il divieto di PMA per le donne single: una posizione confermata

Parallelamente, la Corte ha affrontato un’altra questione sollevata dal Tribunale di Lucca, relativa all’accesso alla PMA per le donne single. In questo caso, la Consulta ha ritenuto “non irragionevole né sproporzionata” la legge che limita l’accesso alla PMA in Italia alle coppie, escludendo le donne single. La Corte ha motivato questa decisione sottolineando che il legislatore ha inteso evitare un progetto genitoriale che escluda a priori la figura paterna, nell’interesse del minore. Tuttavia, ha precisato che non esistono ostacoli costituzionali a un’eventuale estensione dell’accesso alla PMA a nuclei familiari diversi, come le famiglie monoparentali, lasciando questa scelta alla discrezionalità del legislatore.

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