Debora Kayembe, prima donna africana rettrice ad Edimburgo

di Alice Marchese


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Debora Kayembe è un’avvocata, linguista, attivista per i diritti umani, era una rifugiata e dal primo marzo sarà la prima Rettrice di origini africane dell’Università di Edimburgo, in Scozia. “Parità e giustizia razziale siano battaglia per tutti”, ha dichiarato ad HuffPost che l’ha intervistata per ascoltare la sua storia; nonostante il suo vissuto sia pieno di minacce e aggressioni razziste, questo non l’ha fermata nel conseguire un risultato così importante in una famosissima Università.

Lei è la prima donna di origini africane a servire come Rettrice all’Università di Edimburgo. Che effetto le fa?
“Mi sento molto orgogliosa per questo incarico e sono consapevole di fare la storia. È qualcosa che non avrei mai immaginato potesse succedere a me. Sono grata per questa nomina e per il fatto che la mia elezione non abbia suscitato contrasti: questo conferma che l’Università di Edimburgo ha scelto la strada della diversità, dando l’opportunità a tutte le persone provenienti da contesti diversi di offrire la loro parte migliore”.

Nel 2005 ha dovuto lasciare il suo Paese, la Repubblica democratica del Congo, perché la sua vita era in pericolo. Può raccontarci la sua storia di rifugiata?
“È stata una questione di vita o di morte: la mia attività di avvocata mi aveva portato a investigare dei crimini commessi contro le donne; i criminali che avevo nominato in un rapporto mi stavano cercando per uccidermi. Grazie al supporto di alcuni attivisti per i diritti umani, sono riuscita a lasciare il Paese. Ho presentato domanda come richiedente asilo nel nord dell’Inghilterra, ma poco dopo l’ufficio immigrazione aveva archiviato il mio caso dicendomi che dovevo lasciare il Regno Unito. Decisivo è stato l’intervento di Jack Straw (laburista, rappresentate alla Camera dei Comuni per la città di Blackburn dal 1979 al 2015): è stato lui a convincere l’unità degli assistenti sociali del Ministero degli Interni a riaprire il mio caso secondo le loro regole. Si è aperto così un processo straordinario: con l’aiuto di attivisti locali e organizzazioni come Soroptimist International e Amnesty international, siamo riusciti a ottenere un’udienza in tribunale e a far arrivare testimoni dalla Francia, come chiedeva l’ufficio immigrazione. Dopo due mesi d’attesa, i fatti mi hanno dato ragione: mi è stato concesso lo status di rifugiata nel Regno Unito”.

Come è stato il suo percorso di integrazione nel Regno Unito? Quali sono state le sfide?
“È stato il percorso più difficile della mia vita. Vedermi riconosciuto lo status di rifugiata è stato un sollievo, ma presto ho realizzato che la mia vita sembrava maledetta: i miei studi francesi non erano riconosciuti dal sistema inglese, né valeva la mia qualifica di avvocata. Mi sono dovuta scontrare con un sistema discriminatorio e razzista che non consente alle persone di altre origini, convinzioni o colore della pelle di integrarsi ai livelli più alti della società britannica. Mi sono trasferita in Scozia ma l’odio razzista mi ha accompagnata anche lì”.

Quali sono gli atti di razzismo più dolorosi che lei e la sua famiglia avete dovuto affrontare?
“I miei figli venivano continuamente presi in giro a scuola per il fatto di essere neri e di origini africane, pur essendo nati e cresciuti in Inghilterra. Io stessa sono stata umiliata un milione di volte. Quando ho partorito mia figlia come richiedente asilo, mi è stato negato di aggiungere la mia professione al suo certificato di nascita. È un aspetto che ho intenzione di correggere”.

Per molto tempo ha sopportato in silenzio, poi ha deciso di alzarsi in piedi e far sentire la sua voce di attivista. Cosa è scattato in lei?
“L’uccisione di George Floyd negli Stati Uniti e la forza del Movimento Black Lives Matter hanno mi hanno fatto capire che ero pronta a battermi per una causa comune. C’è stato poi un fatto privato che è stato come la goccia che ha fatto traboccare il vaso: mentre ero a casa sotto le rigide regole del lockdown anti-Covid, qualche individuo razzista ha preso di mira me e la mia famiglia mettendo dei chiodi negli pneumatici, nella speranza di farci morire in un incidente stradale. Questo evento – un tentativo di omicidio a tutti gli effetti – mi ha fatto capire che non potevo più sopportare in silenzio, come avevo fatto per molti anni. Così ho iniziato a raccontare la mia storia in pubblico e aprirmi con il dialogo e la tolleranza a coloro che hanno perpetrato questi atti malvagi.
Un altro momento di svolta è stato il giorno in cui mia figlia è tornata da scuola piangendo dopo che le era stato chiesto di dimostrare la danza degli schiavi davanti ai suoi compagni di classe. Io e la mia famiglia abbiamo sopportato l’impensabile: una somma di ingiustizie e attacchi razzisti con cui potrei riempire un libro”.

Tra piangersi addosso e lottare, lei ha scelto la seconda strada, quella dell’impegno politico, lanciando la campagna Freedom Walk. Di cosa si tratta?
“È un movimento per i diritti civili che vuole promuovere riforme sociali, giustizia razziale e armonia comunitaria. Il focus principale della campagna è il Rispetto: rispetto per i diritti civili degli individui e lotta per la giustizia razziale. Ci battiamo contro una retorica anti-immigrazione che è intrisa di razzismo, quando presenta i rifugiati come stupratori o li accusa di rubare il lavoro alla popolazione locale. In Scozia non c’è mai stato un movimento per i diritti civili; molte persone pensano che il razzismo qui non sia un problema ma in realtà non è così: aggressioni come quelle che abbiamo subito io e i miei figli lo dimostrano. Speriamo di fare sempre di più. Abbiamo presentato una petizione al Parlamento in favore di un’educazione anti-razzista e stiamo lanciando una nuova campagna per rivedere le regole “anti-famiglia” per gli immigrati. Abbiamo molto su cui lavorare per creare un mondo migliore e più giusto”.

Qual è la sua idea di leadership?
“Essere leader vuol dire saper ascoltare e servire la propria comunità, senza approfittare della propria posizione. Significa ascoltare i bisogni delle persone e fare del proprio meglio per soddisfare quei bisogni”.

In Italia si discute molto sull’assenza di donne democratiche tra i ministri del nuovo governo. Ma la disuguaglianza di genere – in Italia – è un problema evidente a tutti i livelli, dal mondo accademico al mondo degli affari. Nella sua carriera, si è sentita doppiamente discriminata? Qual è la strada per la parità di genere?
“L’ho sentito molte volte: nella mia carriera di avvocata, di linguista e anche durante i miei anni come attivista per i diritti umani. È difficile credere quanto siano gravi e diffuse le molestie sessuali in ogni campo della società, dall’università al mondo degli affari. Per questo è fondamentale denunciare, fare rete, usare tutta la potenza dei social network per parlarne quanto più possibile. Personalmente, non credo sia una battaglia femminista: è una lotta per il progresso di tutti gli esseri umani – noi – perché è solo nel rispetto e nelle pari opportunità che una società può davvero fiorire”.

Devo uno degli anni più belli della mia vita all’Università di Edimburgo, grazie al progetto Erasmus. Oggi, a causa della Brexit, gli studenti scozzesi ed europei non potranno più godere di quella straordinaria opportunità. Sembra una perdita per tutti … Qual è la sua opinione a riguardo?
“Brexit è un attacco alla nostra umanità, è un concetto anti-immigrazione e un’altra retorica razzista all’interno della nostra società. È una ferita che si aggiunge a ciò che dobbiamo ancora affrontare: una pandemia che non solo ha causato devastazione, ma ha strappato le bende alle vecchie ferite, mostrando che la nostra società non è riuscita a fornire un’assistenza sanitaria equa. L’Erasmus è stata una grande finestra sul mondo; spero che in futuro sia possibile trovare il modo di gestire un programma simile, così che gli studenti abbiano accesso a questa straordinaria opportunità”.

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