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Quanto tempo ci vuole per dimenticare l’ex? La Scienza lo ha calcolato
Stampa articolo“Ci vorrà la metà del tempo della vostra relazione per voltare pagina”. Questo adagio, spesso sussurrato tra amici dopo una rottura sentimentale, si scontra con la complessa realtà emotiva del dolore amoroso. Se per alcuni la guarigione giunge in poche settimane, per molti il percorso è tortuoso e disseminato di ricadute. In materia di sentimenti, regole universali non esistono: ogni individuo affronta la separazione in modo unico, portando con sé i propri fantasmi, ricordi e fragilità. Ma quanto tempo è realmente necessario per dimenticare un ex?
La ricerca svela tempi inaspettati
A questa domanda hanno tentato di rispondere due ricercatori, Jia Y. Chong e R. Chris Fraley, in uno studio pubblicato nel marzo 2025 sulla rivista Social Psychological and Personality Science. Il risultato è sorprendente: secondo le loro analisi, occorrerebbero in media otto anni per recidere completamente i legami emotivi con un ex partner. Otto lunghi anni affinché i sentimenti si affievoliscano realmente. Questa durata prolungata si spiega attraverso diversi fattori psicologici profondi.
L’impronta chimica dell’attaccamento cerebrale
L’innamoramento non è semplicemente una questione di emozioni superficiali; coinvolge una complessa reazione chimica nel cervello. Durante l’attrazione, vengono rilasciati intensi cocktail di neurotrasmettitori come la dopamina, l’ossitocina e la noradrenalina. Queste sostanze inducono sensazioni di benessere, creano legami affettivi e generano un senso di ricompensa. La ricercatrice Helen Fisher, autrice di uno studio sull’argomento, paragona l’amore a uno stato di motivazione, un impulso biologico a mantenere vicino la persona amata. Quando questa persona se ne va, lo shock è simile a una sindrome da astinenza.
La carenza di dopamina provoca un vuoto interiore, analogo alla dipendenza. Questa improvvisa perdita di “carica emotiva” può rendere insopportabili i giorni senza l’altro. Anche a distanza di anni, una canzone, un profumo o una fotografia possono riattivare i circuiti neuronali legati all’attaccamento. Come spiega lo psicologo Mark Travers a Forbes: “Poiché l’amore influenza il sistema di ricompensa del cervello, sarebbe più corretto paragonare una rottura agli effetti psicologici di un’astinenza”. Di conseguenza, il cervello, strutturatosi attorno alla relazione, impiega anni per riorganizzare le proprie connessioni. Non si tratta solo di una ferita al cuore, ma di una lenta e quasi invisibile trasformazione cerebrale che richiede tempo per guarire.
L’andamento irregolare del dolore emotivo
Contrariamente a quanto si potrebbe desiderare, le emozioni connesse a una rottura non svaniscono in modo lineare. I ricercatori parlano di un lutto non lineare: un processo complesso in cui le fasi del lutto (negazione, rabbia, contrattazione, tristezza, accettazione) possono intrecciarsi, ripetersi e riemergere inaspettatamente. Un giorno ci si sente liberi, il giorno seguente un semplice ricordo riaccende l’intera sofferenza. Questa altalena emotiva è del tutto normale. Uno studio pubblicato sull’Adultspan Journal nel 2020 conferma che le rotture amorose possono scatenare un vero e proprio lutto psicologico, simile a quello sperimentato dopo una perdita significativa.
Secondo Mark Travers: “Anche quando si è accettata la fine, possono persistere schegge emotive”. Queste “schegge” sono pensieri intrusivi, ricordi ricorrenti, momenti in cui ci si interroga se l’altro pensi ancora a noi. Non sono necessariamente segnali di un desiderio di tornare indietro, ma tracce dell’investimento emotivo passato. E come ogni lutto, non esiste una durata prestabilita per stare meglio. È questo percorso disordinato, con i suoi alti e bassi, che spiega perché, anche a distanza di molti anni, si possono ancora provare ondate di nostalgia o tristezza. È necessario tempo, molto tempo, affinché queste emozioni trovino il loro posto e gradualmente si attenuino.
La lenta ricostruzione dell’identità personale
Un’ulteriore ragione per cui una rottura lascia un segno così profondo risiede nella sua capacità di destabilizzare la nostra identità. In una relazione duratura, si sviluppa quello che gli psicologi definiscono “intreccio identitario”: la prospettiva non è più individuale (“io”) ma collettiva (“noi”). Si condividono progetti, cerchie sociali e abitudini. Gradualmente, si verifica una fusione, al punto da non distinguere più i propri desideri al di fuori della dinamica di coppia. Dopo la rottura, questa fusione lascia un vuoto. Non si sa più esattamente chi si è, cosa si ama o cosa si desidera. Diventa quindi necessario ricostruire una versione indipendente e più radicata di sé stessi.
Questo compito, come evidenziato da uno studio del 2022, può richiedere anni, specialmente se la relazione è stata lunga o caratterizzata da una forte dipendenza reciproca. Anche in una nuova relazione, alcuni schemi del passato possono persistere. Si agisce secondo vecchi riflessi, si continua a definirsi in relazione all’altro, spesso inconsapevolmente. “Chi sono senza di lui/lei?” si trasforma in una domanda esistenziale. Il ritorno a sé è un processo lento, profondo e progressivo. Richiede nuove esperienze, nuovi punti di riferimento e un periodo di introspezione. Non si tratta semplicemente della fine di una storia d’amore, ma talvolta di una vera e propria ricerca identitaria. Ed è questa ricostruzione interiore che può prolungare, involontariamente, la presenza spettrale dell’ex nella nostra mente. In conclusione, dopo una rottura, è fondamentale essere indulgenti con sé stessi e concedere al tempo il compito di lenire le ferite.
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