Lidia Poët, la storia della prima avvocata italiana della storia

di Alice Marchese


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Lidia Poët è la prima donna in Italia ad iscriversi all’albo professionale come avvocata. Inseguire la propria passione lavorativa ed essere donna spesso era un vero e proprio incubo. Infatti Lidia fu radiata poco dopo, ma nonostante tutto riuscì a conseguire il suo tanto agognato risultato. Per tale ragione Netflix ha deciso di dedicargli 6 episodi appena usciti. La serie è La legge di Lidia Poët, e vedrà come protagonista Matilda De Angelis.

Chi era Lidia Poët

Nata nel 1855 in una famiglia valdese benestante, Lidia Poët studiò in Svizzera, al Collegio delle Signorine di Bonneville di Aubonne. Successivamente conseguì prima la patente di Maestra Superiore Normale, poi quella di Maestra di inglese, tedesco e francese. Tornata in Italia, conseguì anche la licenza liceale, poi si iscrisse alla facoltà di legge dell’Università di Torino.

La condizione femminile è stato il tema della sua discussione di tesi. Il focus era anche  sul diritto di voto per le donne, dibattito che l’ha sempre coinvolta in prima persona. Per quanto riguarda la pratica legale, è stata a Pinerolo, nell’ufficio dell’avvocato e senatore Cesare Bertea. Superò il praticantato (con il voto di 45/50) e l’esame di abilitazione alla professione forense, poi chiese l’iscrizione all’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Torino.

Due avvocati, per protesta, si dimisero dall’ordine dopo che l’istanza venne messa ai voti. Soprattutto perché questa venne accolta con 8 voti a favore e 4 contrari.

A dare il verdetto finale fu il presidente Saverio Francesco Vegezzi ed altri quattro consiglieri. “A norma delle leggi civili italiane le donne sono cittadini come gli uomini”. Dunque il 9 agosto 1883 Lidia Poët divenne la prima donna italiana ammessa all’esercizio dell’avvocatura.

Cosa accadde dopo

Ma ovviamente non tutto andò per il verso giusto. Infatti il procuratore generale del Regno impugnò la decisione dell’Ordine e fece ricorso alla Corte d’Appello di Torino, che l’11 novembre 1883 ordinò la cancellazione dall’albo.

“Ne risulta evidente esser stato sempre nel concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine (…). Vale oggi ugualmente come allora valeva, imperocché oggi del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare”. Questo si legge nella sentenza della Corte d’Appello, secondo cui le donne “avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse fra essi, di divenirne le uguali anziché le compagne, siccome la provvidenza le ha destinate”.

Ma nonostante la sentenza, Lidia non mise un freno alla sua passione, anzi continuò imperterrita grazie al fratello Giovanni Enrico, pur senza poter patrocinare nei tribunali. Il suo lavoro si sviluppava principalmente sulla difesa dei diritti dei minori, degli emarginati e delle donne, e sostenne anche la causa del suffragio femminile.

Nel 1920 finalmente qualcosa cambiò e dopo l’entrata in vigore della legge 1176 riuscì ad iscriversi nuovamente all’Albo degli avvocati di Torino. Questa norma prevedeva che le donne potessero accedere ad alcuni pubblici uffici.

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