Lara Cardella: “Non è amore. È un paradosso. Se amo devo star bene e devo far star bene”

di Alice Marchese


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“Volevo i pantaloni” è un libro di Lara Cardella; l’autrice all’interno della sua opera descrive una mentalità retrograda siciliana, che batteva incessantemente sulla mortificazione del corpo delle donne, gli incesti in famiglia, l’ipocrisia di una società che non sa essere solidale con chi sceglie la libertà.
Un libro illuminante, dal sapore dolceamaro che abbraccia tematiche forti: «Ha un finale troppo consolatorio, il mio era un finale tragico».

«Dovevate insegnarci a difenderci da voi, genitori, parenti e amici, perché per gli estranei c’è l’istinto di diffidenza, congenito in noi, e, se proprio qualcuno è così ingenuo da affidare la sua vita nelle mani del primo che passa, allora è solo a se stesso che deve addossare la colpa di episodi spiacevoli. Ma chi ci ha insegnato a difenderci da voi? A chi dobbiamo poi dare la colpa, se siete voi a ucciderci? Alla nostra incrollabile buona fede?». Aveva 19 anni e scriveva questo.

Il successo clamoroso del suo primo romanzo, tradotto in tredici lingue, l’ha portata in tutti i salotti televisivi: ha sempre continuato a scrivere storie di donne in cerca di libertà. Oggi la Cardella vive a Bergamo, dove insegna lettere in un istituto per ragionieri, continua a scrivere «perché non posso farne a meno», ma ha smesso di pubblicare, per opposizione a un mondo che forse non la rappresenta più.

Dopo i recenti femminicidi in Sicilia e lo scenario dunque abbastanza tragico che provoca un dolore lancinante, nel giorno consacrato all’amore dice di essere stufa, di non avere più nulla da dire, sulle donne e su una società che ha tragicamente dimostrato di non volere cambiare. Repubblica riporta un’intervista rilasciata dall’autrice.

Perché si resta accanto a un uomo violento? È legittimo parlare di “amore molesto”?
«Non esiste l’amore molesto. Non è amore. È un paradosso. Se amo devo star bene e devo far star bene. È vero quel che si dice, che il primo schiaffo è colpa dell’uomo, il secondo della donna. Al primo schiaffo bisogna andar via. È qui che entra in gioco la responsabilità collettiva. La società deve supportare la donna che al primo schiaffo va via e non invece rispedirla tra le mani del carnefice in virtù di valori che sono superstizioni. I primi a provare a far riconciliare una donna picchiata con un marito violento sono i poliziotti chiamati in soccorso, sono loro a dire “avanti, ci parli”. Poi i vicini di casa, tuo padre e tua madre. Ti devi fare ammazzare prima che succeda qualcosa. Bisogna agire sul contesto. Fare sentire le donne libere. Quante sono quelle che trovano il coraggio di denunciare per poi sentirsi isolate e pagare a caro prezzo il fatto che non accada nulla. Dove è la volontà politica di fare qualcosa quando in televisione e nei social la mercificazione della donna è ovunque».

Sono passati più di trenta anni dal 1989 di “Volevo i pantaloni”: cosa è cambiato da allora a oggi?
«Nulla, non è cambiato nulla. Lo dice la cronaca recente. Per questo sono stanca e sto zitta, non pubblico, non parlo, ho smesso di utilizzare i social. Anzi, rispetto a quando ho scritto “Volevo i pantaloni” oggi in Sicilia, ma direi in tutta Italia, non c’è più nelle donne il desiderio di cambiare che c’era negli anni Settanta-Ottanta. Nessuno vuole cambiare. Il contesto è peggiorato. Per colpa della televisione e del ventennio berlusconiano, che ha fatto un danno alle donne, all’immaginario su di loro e al loro stesso immaginario, che pagheremo ancora per tanto tempo. Ho acceso la televisione per guardare Bonolis, il cui umorismo mi piace, mi fa ridere, e mi sono ritrovata davanti una donna in una situazione imbarazzante :la chiamano “la bona sorte”. Vedo programmi in cui le donne insegnano come leccare in modo sexy il gelato. Ogni giorno viene rappresentato uno scenario in cui le donne sono felici di essere trattate come prede. E sono loro a volerlo. Quando c’è stata la rivolta degli schiavi, sono stati gli schiavi a farla, non c’è stato un giorno in cui i padroni hanno detto “sai che c’è schiavo, da domani penso sia giusto liberarti”. No, non è andata così. La resistenza è debole. Bisogna anche capire che non tutte le volte che sei attaccata vuol dire che è sessismo, ogni tanto ci sta che vieni attaccata perché hai detto una stupidaggine. Quando Michela Murgia, che è una donna intelligentissima, propone di cambiare la “patria” in “matria”, per esempio, attaccarla non è sessismo, è riportarla al buon senso».

Lavorando nel mondo della scuola, ha potuto constatare personalmente casi in cui le ragazze subisco una cultura maschilista?
«Tante volte, sia con i ragazzi italiani, ma anche, devo dirlo, anche se criticare lo straniero è il massimo tabù italiano, con gli extracomunitari. Ma io mi domando, dobbiamo parlarne bene anche quando massacrano di botte le donne e non consentono loro una vita normale? Ho avuto un’alunna di una famiglia islamica, che si è tagliata le vene dei polsi a scuola pur di sfuggire alle costrizioni cui era sottoposta. Siamo intervenuti, scuola, servizi sociali, famiglia sotto osservazione. Risultato? Alla fine dell’anno sono spariti, hanno cambiato città, nessuno risponde più ai numeri di telefono. E della ragazzina non so più nulla. E le donne cinesi? L’integrazione culturale deve portare chi è sul territorio italiano a vivere il presente. La violenza sulle donne espressa in alcune comunità è quella della Sicilia di 50 anni fa. Non è accettabile. Le ragazzine islamiche dove lo prendono il coraggio di ribellarsi se neanche le nostre donne lo trovano? Le donne devono essere libere qui in Italia». Come hanno agito e continueranno ad agire sui corpi, nel modo di amare, gli effetti di questa pandemia, che ha messo gli amori alla prova della distanza? «A farne le spese saranno soprattutto i giovani e gli anziani.

Immagino che questo tempo di lockdown nelle famiglie abbia più o meno fatto andare le cose nello stesso modo: chi si è desiderato si è amato, chi si è odiato si è odiato due volte. I ragazzi ne usciranno devastati, privati dell’esultanza dei corpi, per questo è evidente che tutte le volte che gli si darà modo di incontrarsi, non ci sarà distanza che tenga. Un problema che persisterà secondo me è per gli adulti soli, per i single l’approccio con l’estraneo sarà filtrato dalla diffidenza. Dalla paura. Sarà difficile tornare ad amare l’altro. Ma da adulti ce ne faremo una ragione. Il peso di questa pandemia lo portano gli anziani, a loro nuoce il mancato amore, abbraccio, calore, loro che già sentono il peso di quel pudore che permea il loro corpo in decadenza». A cosa sta lavorando adesso? «Non posso fare a meno di scrivere.

Ho scritto molto teatro per ragazzi, l’ultima cosa è una versione teatrale tratta da “Speriamo che sia femmina”, in un mondo però rovesciato. Ed è drammatico perché fa ridere, e non dovrebbe. Cerco di influire sul quotidiano. Ho smesso di pubblicare dopo una brutta vicenda con un editore che non mi ha pagato e perché non so autopromuovermi. Ho pronti tre romanzi, uno che parla proprio dell’Islam, perché sento il bisogno di farlo. Un altro del rapporto uomo e donna in una situazione di triangolo, e un terzo, forse un po’ autobiografico, che racconta di una donna che torna in Sicilia. È scritto in siciliano. Non torno in Sicilia da 9 anni, mi manca il mare, ma per me non è ancora tempo di tornare».

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