Hikikomori, il fenomeno cresce sempre più in Italia: cos’è? Quali sono i rischi?

di Redazione


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Hikikomori: questo termine, che arriva dal Giappone, può tradursi come “ritirati sociali” e indica la tendenza di giovani o giovanissimi, a smettere di uscire di casa, frequentare amici e scuola, per chiudersi nelle proprie stanze. Il tutto, limitando al limite i rapporti con l’esterno, manenendo contatti prevalentemente attraverso internet. Il fenomeno è sempre più diffuso in Italia, come dimostra un nuovo studio.

In Italia ci sono sempre più Hikikomori

Sarebbero in tutto oltre 50mila gli Hikikomori italiani, quasi due su cento. Un dato che fa riflettere, diffuso dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr. Gli esperti hanno condotto il primo studio nazionale in materia, per fornire una stima quantitativa del ritiro sociale volontario fra gli adolescenti. La ricerca è promossa dalla onlus Gruppo Abele in collaborazione con l’Università della Strada.

Sono stati coinvolti oltre 12mila studenti, scegliendo un campione rappresentativo della popolazione studentesca italiana, fra i 15 e i 19 anni. Gli adolescenti hanno risposto ad alcune domande, per comprendere i loro comportamenti e le cause percepite. I risultati, quindi, si basano su un’autovalutazione dei partecipanti.

I risultati della ricerca

Sabrina Molinaro, ricercatrice del Cnr-Ifc, spiega: “Il 2,1% del campione attribuisce a sé stesso la definizione di Hikikomori: proiettando il dato sulla popolazione studentesca (riferimento al dato disponibile 2018; fonte Ministero dell’Istruzione) 15-19enne a livello nazionale, si può quindi stimare che circa 54.000 studenti italiani di scuola superiore si identifichino in una situazione di ritiro sociale”.

Quindi aggiunge: “Questo dato appare confermato dalle risposte sui periodi di ritiro effettivo: il 18,7% degli intervistati afferma, infatti, di non essere uscito per un tempo significativo, escludendo i periodi di lockdown, e di questi l’8,2% non è uscito per un tempo da 1 a 6 mesi e oltre: in quest’area si collocano sia le situazioni più gravi (oltre 6 mesi di chiusura), sia quelle a maggiore rischio (da 3 a 6 mesi)”.

Da qui, una conclusione importante: “Le proiezioni ci parlano di circa l’1,7% degli studenti totali (44.000 ragazzi a livello nazionale) che si possono definire Hikikomori, mentre il 2,6% (67.000 giovani) sarebbero a rischio grave di diventarlo“.

L’età più a rischio è quella tra i 15 e i 17 anni, ma le cause si insinuerebbero già dalla scuola media. Fra queste, molto determinante il senso di inadeguatezza, rispetto al gruppo dei compagni. “L’aver subito episodi di bullismo, contrariamente a quanto si possa ritenere, non è fra le ragioni più frequenti della scelta. Mentre si evince una fatica diffusa nei rapporti coi coetanei, caratterizzati da frustrazione e auto-svalutazione“, aggiunge Sonia Cerrai del Cnr-Ifc.

“Un altro dato parzialmente sorprendente riguarda la reazione delle famiglie: più di un intervistato su 4, fra coloro che si definiscono ritirati, dichiara infatti che i genitori avrebbero accettato la cosa apparentemente senza porsi domande. Il dato è simile quando si parla degli insegnanti“, spiega anche. I “ritirati sociali” effettivi sono in maggioranza di sesso maschile, ma le femmine si attribuiscono più facilmente una definizione di Hikikomori: le ragazze hanno una maggiore propensione a sonno, lettura e tv, i ragazzi al gaming online.

Quando nasce l’Hikikomori?

In origine, questo fenomeno venne interpretato come una forma di “ritiro sociale” di una persona, inscindibilmente legata al contesto socio-culturale del Giappone. Alla fine degli anni Novanta, lo psichiatra giapponese Tamaki Saitò fu il primo a utilizzare il termine Hikikomori, nel 1998. In seguito, vennero registrati casi analoghi a quelli giapponesi in molte parti del mondo. Questa tendenza si è diffusa in nazioni economicamente sviluppate, dagli Stati Uniti all’Europa (quindi in Italia).

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