Identificare precocemente chi potrebbe sviluppare la demenza tra le persone con lievi disturbi cognitivi potrebbe rivoluzionare l’approccio ai nuovi farmaci monoclonali.
Come sottolineato dal “Corriere della Sera” questi trattamenti per l’alzheimer, già disponibili negli Stati Uniti e in attesa di approvazione in Europa, eliminano le placche amiloidi nel cervello, ma funzionano meglio nelle fasi iniziali della malattia.
Tuttavia, solo una parte di coloro che presentano un deterioramento cognitivo lieve (MCI) progredisce fino alla demenza. In Italia, circa 950 mila persone convivono con MCI, ma non tutte svilupperanno Alzheimer.
Per questo motivo, è fondamentale individuare uno strumento affidabile e a basso costo per prevedere chi è più a rischio. Lo studio Interceptor, presentato all’Istituto Superiore di Sanità, ha permesso di identificare otto predittori chiave per riconoscere i soggetti con maggiore probabilità di sviluppare la malattia.
Nell’ambito di Interceptor, 350 pazienti sono stati monitorati per sei anni in 19 centri specializzati in tutta Italia. Secondo il professor Paolo Maria Rossini, responsabile del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’Irccs San Raffaele di Roma, i risultati hanno evidenziato che le persone con lievi difficoltà cognitive presentano un rischio elevato di sviluppare demenza entro tre anni dall’insorgenza dei primi sintomi.
I partecipanti sono stati sottoposti regolarmente a diversi esami per misurare l’efficacia di sei biomarcatori specifici: il test Mini Mental, per valutare le funzioni cognitive, il test Dfr, per l’analisi della memoria episodica, la PET, per monitorare l’attività metabolica cerebrale, la Risonanza Magnetica volumetrica, per osservare l’atrofia dell’ippocampo, l’elettroencefalogramma, per lo studio della connettività cerebrale, e la valutazione della genetica dell’ApoE, associata al rischio di Alzheimer.
Durante il follow-up, 104 pazienti con demenza lieve hanno sviluppato una forma avanzata della malattia, tra cui 85 hanno ricevuto una diagnosi definitiva di Alzheimer. Nessun singolo biomarcatore si è rivelato sufficiente per predire con certezza l’insorgenza della patologia, ma combinando otto indicatori, i ricercatori hanno ottenuto un modello con un’accuratezza dell’82%.
I fattori chiave individuati sono: sesso, età, il questionario Amsterdam Iadl, che misura la capacità di svolgere attività quotidiane, familiarità per la demenza, test Mini Mental, volume dell’ippocampo sinistro, rapporto abeta-42/p-tau ed elettroencefalogramma. Questa combinazione ha permesso di sviluppare una sorta di mappa del rischio, uno strumento digitale che potrebbe essere utilizzato anche dai medici di base per identificare precocemente i pazienti a rischio. Con l’eventuale approvazione da parte di Aifa dei nuovi farmaci monoclonali, il team di Interceptor prevede di avviare una nuova fase di ricerca, Interceptor 2.0, per testare l’affidabilità del modello nella selezione dei pazienti da trattare e nel monitoraggio dell’efficacia terapeutica.
Il progetto Interceptor è stato finanziato dal Ministero della Salute e dall’Agenzia Italiana del Farmaco. È stato presentato in anteprima nazionale presso l’Istituto Superiore di Sanità in un evento organizzato dall’Osservatorio Demenze del Centro Nazionale Prevenzione delle Malattie e Promozione della Salute (CNaPPS), dall’Istituto di Neurologia Clinica della Memoria del Policlinico Gemelli e dal Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’Irccs San Raffaele. La ricerca è stata coordinata da quattro centri esperti: l’Università Cattolica del Sacro Cuore – Policlinico Gemelli di Roma, l’Irccs Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia, l’Istituto Neurologico Irccs Fondazione Carlo Besta e l’Istituto di Medicina Nucleare Irccs San Raffaele di Milano. Tra i promotori anche l’Associazione Italiana Malattia Alzheimer (AIMA) e l’Istituto Superiore di Sanità.
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