Il caso Winehouse visto da un genitore

Siamo rimasti tutti senza parole di fronte alla morte di Amy Winehouse, un talento eccezionale e un’enorme fragilità che lasciava emergere nei suoi brani ed arrivava dritta al cuore. Il decesso probabilmente è stato causato, direttamente o indirettamente, dalla sua sfortunata scelta di abusare di alcol, cocaina, ectasy, ketamina, eroina, crack e quant’altro. Da mamma, il mio pensiero va subito ai suoi genitori che, prima di essere i genitori di una famosa star sono, o meglio erano, i genitori di una ragazza di ventisette anni con problemi di droga, con tutto ciò che ne deriva.

La mamma di Amy ha confidato ad un giornalista di sapere che prima o poi sarebbe arrivato questo momento ed il padre Mitch ha sostenuto che la sua bambina avesse interrotto bruscamente l’uso dell’alcol come aveva fatto già con la droga e che volesse riabilitarsi da quelle dipendenze che le facevano leggere la disperazione sulle facce dei suoi familiari.

Il dramma è evidente e di pubblico dominio, in questo caso. Ma sono tantissime le famiglie sconvolte dal dramma della droga, soprattutto quando a farne uso è un figlio.

Nella mia esperienza di avvocato familiarista, capita di ricevere richieste di pareri su come comportarsi giuridicamente con un figlio che fa uso di droghe. E’ da tener presente che i genitori vivono spesso il problema come una loro mancanza, una loro incapacità di proteggere il figlio e di tenerlo lontano dai guai.

Spesso l’angoscia è così forte da paralizzare qualsiasi iniziativa: il problema del figlio drogato rimane un segreto gelosamente serbato nelle pareti domestiche e protetto dai giudizi altrui; ma in questo caso tutte le attenzioni si concentrano sul problema non lasciando spazio ad una vita quanto più “normale”, che consenta un certo equilibrio anche per gli altri figli.

Spesso all’angoscia per i rischi corsi dal proprio figlio, si somma la paura dei comportamenti del figlio stesso: non dimentichiamo che purtroppo le cronache ci narrano spesso di casi in cui al rifiuto dei genitori di fornire denaro per acquistare (per l’ennesima “ultima volta”) sostanze stupefacenti, siano seguite azioni violentissime o perfino assassinii.

Le famiglie che, consapevoli dell’estrema difficoltà a risolvere il problema con risorse proprie, cercano un aiuto esterno possono trovarlo nel  SERT, nei gruppi di auto aiuto, nelle numerosissime associazioni di volontariato e soprattutto nelle comunità terapeutiche. La scelta di farsi aiutare deve però essere condivisa dal figlio: finché è minorenne, i genitori hanno un diritto-dovere di istruirlo, educarlo e mantenerlo, nel rispetto delle sue inclinazioni, senza però abusare di questo diritto come ha fatto nel 2007 una madre che, per impedire che il figlio uscisse a comprare la droga, lo ha legato al letto.

Con la maggiore età si diventa sui iuris, cioè pienamente responsabili delle proprie azioni che non possono essere coartate da nessun altro, nemmeno dai genitori nella cui casa si continua a vivere, a meno che non si provi, davanti ad un Giudice, una reale incapacità di intendere di volere e non si ottenga la nomina di un tutore o di un curatore. Dunque Lo Stato con le sue norme ha il potere di intervenire più o meno solo quando il problema diventa “violenza in famiglia”, oppure quando la violenza si sposta all’esterno e si tramuta in pericolo sociale.

La strada verso la riabilitazione è quindi triste ed irta di difficoltà, sia per i ragazzi tossicodipendenti che per i genitori che vivono con loro questo calvario. E d’altra parte, gli stessi genitori dovranno essere in grado di accompagnare i propri figli in questo percorso consapevoli del fatto che il successo finale dipenderà però dalla scelta del ragazzo di salvarsi o meno.

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