Ogni bambino è diverso dall’altro, così come unica è la relazione che si instaura tra ogni bambino, mamma e famiglia.
Ci sono bambini che, da subito, dormono di notte (all’inizio 2-3 ore, poi si svegliano per mangiare. Arrivare a 4-5 ore all’inizio è un lusso). Ci sono genitori che “stanno male” appena sentono il pianto del bambino e altri che tollerano pianti prolungati.
Ma che fare se il bambino piange e “vuole venire” nel lettone con voi?
Io consiglio di far dormire il bambino vicino alla mamma, nel suo lettino o nelle culle da affiancare al lettone evitando di farlo dormire nel lettone, ma la scelta dipende da tanti fattori: caratteristiche del sonno del bambino, “cuore” di mamma e anche di papà.
Delicati sono i primi mesi.
Dormire nel lettone è un fattore citato di rischio della morte in culla (molto meno di altri fattori) ma è assolutamente da evitarsi in caso di madri fumatrici, dedite alle droghe, sottoposte a farmaci che agiscono sul sistema nervoso, obese o con disturbi del sonno o quando si dorme insieme su divani, poltrone o letti ad acqua.
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Ecco alcuni consigli di base (che vanno adattati poi a ogni bebè):
Come dice lo psicoterapeuta Pellai: “Come regola generale il lettone è il luogo del riposo di mamma e papà, non di mamma, papà e bambini. Per questi ultimi, il posto ideale dove fare la nanna è la culla o il lettino. Come ogni regola, però, anche questa può avere qualche eccezione. Soprattutto nei primi mesi di vita di un neonato. Se i ritmi delle poppate sono ancora un po’ confusi e i risvegli molto frequenti, infatti, il lettone può diventare un “salvavita” per una mamma che allatta. L’idea è quella di alleviare la sua stanchezza, di tutelare il suo benessere e, di conseguenza, quello del bimbo“.
Ricordatevi inoltre quanto diceva il famoso pediatra Franco Panizon: “a questo punto, ciascuno è quanto meno autorizzato ad andare dove lo porta il cuore, a chiedere a se stesso (e non ad una “scienza del comportamento” ancora, e speriamo a lungo, assai fragile) come comportarsi, senza pentimenti e senza timore di condanne“.
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